Fillus de anima.
È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra.
Accabadora, Michela Murgia, Einaudi, 2009 |
Tutto il paese si domanda perché Tzia Bonaria Urrai abbia preso in casa la figlia di un'altra alla sua età. Qualcuno dice perché anche i ricchi hanno bisogno di qualcuno che gli pulisca il culo, ma altri ribattono che i ricchi possono permettersi di pagare qualcuno, senza farlo diventare erede.
Qualcuno invece dice perché anche i ricchi quando muoiono non vogliono essere soli.
È un tema delicato quello toccato da Michela Murgia in Accabadora.
Essere madri, avere due madri: di chi siamo figli?
Del ventre o dell'anima?
La piccola Maria Listru non piange quando va via con Tzia Bonaria, sa che dovrebbe ma non ricorda il motivo. Forse perché era sempre stata l'ultima, forse perché il suo spazio vitale si limitava all'estensione delle sue piccole braccia, forse perché in qualche posto della sua acerba anima era consapevole di essere un errore. Con Tzia Bonaria è diverso, per la prima volta si sente importante.
Quando la mattina si lasciava alle spalle la porta e stringeva il sussidiario verso la scuola, aveva la certezza che se si fosse voltata l'avrebbe trovata lì a guardarla, appoggiata allo stipite come a reggere i cardini.Il rapporto tra Maria e Tzia Bonaria diventa presto qualcosa di assolutamente normale per il paese di Soreni, come se fosse sempre stato così: anima e fill'e anima. Un rapporto autentico con qualcosa in più di quello tra una figlia e una madre, qualcosa in meno tra la figlia e la mamma.
Maria non recide i contatti con la famiglia d'origine. Va ancora ad aiutare quando serve ed è questo che sua madre, quella del ventre, vede in lei: un paio di braccia in più per aiutare la famiglia, ovvero lei e le sorelle. Invece Tzia Bonaria si preoccupa solo che Maria non perda troppe lezioni di scuola.
Cosa succede poi?
Una storia perché sia storia deve raccontare qualcosa. E succede che una notte Maria vede Tzia Bonaria uscire di notte, in silenzio e di nascosto. Non comprende il perché e quasi dimentica quello che è successo. Le campane che suonano per il morto il giorno dopo, le dimentica.
Finché un giorno la verità le viene gettata addosso da chi le era sempre stato vicino e il significato della parola Accabadora diventa chiaro anche per noi:
«accabadora, colei che finisce»
Così recita anche la quarta di copertina.E Maria, fill'e anima, cerca un'altra vita.
È un libro che merita di essere letto. Semplice nella trama e breve nelle parole (164 pagine) tratta argomenti che ti portano inevitabilmente a riflettere: la maternità mancata e non voluta, il sottile confine tra il diritto alla vita e la morte compassionevole, i giudizi e le parole affrettate come il «mai».
È facile dire «mai», ma al momento del dunque saremo all'altezza delle nostre parole?
- Non dire mai: di quest'acqua non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.Michela Murgia conquista anche per il suo stile, il suo modo di scrivere. Leggere questo libro mi ha fatto inevitabilmente pensare ai grandi classici italiani del Novecento, forse anche perché il libro è nella stessa forma: un Einaudi dalla copertina rigida di un verde sbiadito e dalle pagine un po' ingiallite.
Tutta la storia avrebbe potuto essere molto più lunga e dettagliata, la trama è ricca; la bravura di un autore non sta però nel numero delle parole usate ma nel come si usano queste. Michela Murgia non ne spreca, ci dice l'essenziale di Maria, Tzia Bonaria, Soreni, attraverso piccoli episodi e voci fuori dal coro: il resto lo possiamo immaginare, sappiamo quel che basta per conoscere i nostri protagonisti e capire le loro scelte.
Questo per me significa saper scrivere e questo mi piace trovare in uno scrittore: mi piace quando non c'è bisogno di aggiungere altro, quando quello che doveva essere stato scritto è stato scritto, i personaggi poi compiranno inevitabilmente quelle scelte e tu le dovrai capire, da quell'essenziale fondamentale che ti è già stato detto.
Il libro mi ha conquistata.
Non so però se potrebbe piacere a tutti. È un libro che secondo me potrebbe piacere a chi ama la letteratura italiana di una volta, quella dei paesaggi aspri, dei paesi, della solitudine. Piacerebbe anche a chi ama le storie vere, anche se vere non sono.
Infine sarebbe da leggere per chi ama i libri "impegnati", anche se il libro impegnativo non è perché lo leggi e lo finisci senza accorgertene, scivola via lentamente e lascia il segno.
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